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Le Collezioni del Mart, costituite nel 1987 a partire dalle raccolte d’arte della Provincia e dei Comuni di Trento e Rovereto, si sono arricchite nel corso degli anni grazie a depositi di collezionisti privati e fondazioni. Nelle sale del primo piano dell’edificio progettato da Mario Botta è possibile vedere una selezione di questo patrimonio formato da circa 20.000 opere, dove è protagonista l’arte italiana.
Il percorso espositivo inizia con le sale rosse di Frammenti di una storia, una sezione dedicata alle Collezioni un tempo esposte nella prima sede del museo, il rinascimentale Palazzo delle Albere a Trento.
Nelle sale bianche si svolge, invece, il racconto de L’invenzione del moderno, da Medardo Rosso ai Divisionisti, dal Futurismo all’arte astratta, passando per i protagonisti della Metafisica, di Novecento italiano e del Realismo Magico.

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giustiniano degli avancini

Nello studio del pittore

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Bartolomeo Bezzi

Giorno di magro

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Andrea Malfatti

Schiava ribelle

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Luigi Bonazza

La leggenda di Orfeo/ Rinascita d’Euridice/ Morte d’Orfeo

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Umberto Moggioli

Campagna a Treporti

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Medardo Rosso

Carne altrui

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Umberto Boccioni

Nudo di spalle

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Carlo Carrà

Composizione TA

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Carlo Carrà

Le figlie di Loth

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Arturo Martini

Il poeta Cechov

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Giorgio de Chirico

La matinée angoissante

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Giorgio de Chirico

Autoritratto con la madre

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Mario Sironi

Il povero pescatore

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Marino Marini

Pugile

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Felice Casorati

Beethoven

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Carlo Carrà

Ciò che mi ha detto il tram

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Giacomo Balla

Linee forze di paesaggio + giardino

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Gino Severini

Ritratto di Madame M.S.

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Tullio Crali

Le forze della curva

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Fortunato Depero

Movimento d’uccello

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sale 9 e 10

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Manlio Rho

Composizione

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Fausto Melotti

Contrappunto domestico

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Fausto Melotti

Scultura n. 23

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Giustiniano Degli Avancini (Levico, TN, 1807 – Venezia, 1843)
Nello studio del pittore (Il pittore e la sua famiglia), (1839-1843)
Olio su tela, 95,5 x 118 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Provincia autonoma di Trento – Soprintendenza per i beni culturali

Il nostro percorso nelle Collezioni del Mart inizia con un’opera di Giustiniano degli Avancini eseguita tra il 1839 e il 1843 e intitolata Nello studio del pittore. Il dipinto appartiene a un’epoca di passaggio dal Neoclassicismo, ambito nel quale si forma l’artista, al Realismo ottocentesco.
Si tratta di una conversation piece in cui i protagonisti sono ritratti in dialogo tra loro. Questo genere pittorico, in voga nei Paesi Bassi e in Inghilterra fin dal Seicento, mostra scene di vita familiare con gruppi di persone impegnate in una conversazione.
Il quadro raffigura l’artista nell’atto di mostrare una propria opera ai suoi genitori e a un conoscente. Il rapporto tra le figure è sottolineato dal gioco di sguardi e dal movimento delle mani, in modo da dare l’idea di un momento di vita realmente vissuta. Allo stesso tempo, la composizione appare attentamente studiata e richiama Il concerto interrotto del Tiziano, animato da una simile gestualità e scambio di sguardi.
Gli anni di studio a Roma avevano portato il pittore trentino ad avvicinarsi alla tendenza purista dei Nazareni, un gruppo di pittori tedeschi che risiedevano nell’ex convento francescano di San Isidoro e che si ispiravano all’arte del Quattrocento italiano.

Bartolomeo Bezzi (Fucine di Ossana, TN, 1851 – Cles, TN, 1923)
Giorno di magro, 1895
Olio su tela, 136,6 x 200 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Deposito Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il comune di Napoli

Giorno di magro di Bartolomeo Bezzi fa parte di una raccolta di grandi dipinti di ambiente veneziano, eseguiti negli ultimi due decenni dell’800. Il soggetto è tipico della “pittura di genere”, nata nel XVI secolo nelle Fiandre per rappresentare momenti di vita quotidiana. Qui vediamo una piazza veneziana popolata da venditori ambulanti e donne al mercato del pesce. La scena è rappresentata con una pittura “di macchia” che libera il chiaroscuro e il colore dalle rigidità del disegno, cogliendo l’immediatezza dell’impressione visiva.
Bezzi è un pittore di origine trentina vissuto tra il 1851 e il 1923. Dopo aver frequentato l’Accademia di Brera a Milano, dove partecipa attivamente al dibattito sull’Impressionismo, vive tra Verona e Venezia ed espone nelle più importanti mostre internazionali. Si dedica soprattutto alla pittura di paesaggio ma non disdegna quella di genere, influenzato dal pittore veneziano Giacomo Favretto.
Sullo sfondo di questa grande tela emerge uno scorcio di paesaggio che può ricordare lo stile del pittore francese Camille Corot, per la qualità tonale del colore e la velatura grigia che conferisce all’opera una vena malinconica, tipica di una giornata piovosa, accesa solo dal rosso e dal verde degli scialli delle due donne in primo piano. Una pittura vibrante e fresca che coglie la vita come un’istantanea fotografica, suggerendo un senso di attualità e di cronaca del presente, proprio come nella letteratura verista dell’epoca, impegnata a raccontare la vita della “gente intesa alle proprie faccende”.

Andrea Malfatti (Mori, TN, 1832 – Trento, 1917)
Schiava ribelle, (1883)
Gesso, 77 x 50 x 40 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Comune di Trento

Quest’opera di Andrea Malfatti del 1883, Schiava ribelle, fa parte della Gipsoteca che lo scultore trentino cede al Comune di Trento nel 1912, in cambio di un vitalizio.
Nei circa trecento pezzi che fanno parte di questa importante raccolta oggi conservata al Mart, i soggetti rappresentati sono soprattutto quelli del repertorio romantico e verista. In questa scultura, il tema orientalista corrisponde al gusto per l’esotismo allora di moda e cela un messaggio patriottico: la Schiava ribelle è, infatti, un’allegoria del Trentino assoggettato all’Austria.
Negli ultimi decenni dell’800, Malfatti è un artista di successo che si mette in luce all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1878. Formatosi all’Accademia di Brera di Milano, risente dell’eredità neoclassica del Canova e, allo stesso tempo, partecipa al rinnovamento in senso realista che investe l’ambiente milanese, per esempio nella scelta di soggetti che interpretano gli ideali risorgimentali.
Tornato a Trento, gli viene affidato il restauro dell’antica fontana del Nettuno in piazza Duomo e realizza busti di uomini illustri per il cimitero della città. Appassionato irredentista, viene incarcerato a Innsbruck con l’accusa di aver raccolto fondi a favore di Garibaldi e da questo momento le sue convinzioni patriottiche ispirano alcuni suoi lavori, come questa figura femminile.

Luigi Bonazza (Arco, TN, 1877 – Trento, 1965)
La leggenda di Orfeo/ Rinascita d’Euridice/ Morte d’Orfeo, 1905
Olio su tela
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Deposito SOSAT

Questo trittico è un’opera giovanile di Luigi Bonazza, artista trentino formatosi a Vienna all’inizio del Novecento in pieno clima secessionista. Il dipinto è frutto di una lunga elaborazione basata sull’analisi del mito di Orfeo ed Euridice e ispirata, in particolare, alle Metamorfosi di Ovidio e alle Georgiche di Virgilio. La narrazione è scandita da tre episodi all’interno di un’elaborata cornice con inserti in avorio e ottone che raffigurano i simboli della poesia e della musica.
Nel pannello centrale vediamo Orfeo, sommo poeta che con il suo canto rabbonisce le belve e placa le forze della natura, mentre suona la lira.
Nella tela di sinistra è rappresentata la sua discesa agli inferi, nel tentativo di salvare Euridice. Dopo aver superato ogni ostacolo, ottiene il permesso di portare con sé l’amata a una condizione: non voltarsi mai a guardarla fino a quando non saranno usciti dall’Ade. Ma Orfeo infrange la promessa e l’ombra di Euridice viene nuovamente inghiottita dagli inferi.
Il riquadro di destra, infine, rappresenta l’epilogo drammatico della storia, quando Orfeo viene ucciso dalle Baccanti per non essersi unito a loro, avendo giurato amore eterno a Euridice.
Nell’opera di Bonazza si intrecciano diverse influenze: la forma del trittico richiama l’arte antica, gli elementi decorativi ricordano le preziosità dell’arte secessionista di Gustav Klimt, mentre la tecnica puntinista si ricollega al post-impressionismo francese.

Umberto Moggioli (Trento, 1886 – Roma, 1919)
Campagna a Treporti, 1913
Olio su tela, 105 x 136 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Provincia autonoma di Trento – Soprintendenza per i beni culturali, donazione eredi Francesco Moggioli

Fin dall’adolescenza Umberto Moggioli manifesta il suo interesse per la pittura di paesaggio, realizzando en plein air vedute delle colline intorno alla città di Trento. Dal 1904 frequenta l’Accademia di Belle Arti a Venezia e in questi anni la sua produzione si concentra su soggetti lagunari, rappresentati con grande libertà compositiva e pennellate rapide e dense. Poco più che ventenne, tiene la sua prima mostra personale a Ca’ Pesaro, sede di mostre che danno spazio alle sperimentazioni dei giovani artisti. Qui si fa notare con una pittura capace di restituire le suggestioni atmosferiche legate alle stagioni e al variare delle ore del giorno.
Fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Moggioli vive sull’isola di Burano, dove realizza questo e molti altri paesaggi dedicati alla quiete della campagna, in cui il naturalismo delle sue prime opere si arricchisce di suggestioni provenienti dall’arte simbolista. Il cielo, gli alberi, i campi e la laguna sono i protagonisti di queste composizioni, anche quando esse comprendono delle figure umane come questa contadina china sulle zolle di terra.
Durante la guerra l’artista presta servizio come cartografo ma a causa di una grave malattia viene trasferito in un convalescenziario a Torino. Nel 1916 parte per Roma, dove è ospitato del mecenate Alfred Strohl, che gli mette a disposizione uno studio nel parco della sua villa. Qui Moggioli riprende a dipingere sperimentando uno stile nuovo, influenzato dall’intensa luce romana. Nell’atmosfera suggestiva e piacevole della villa, Moggioli trascorre i suoi ultimi anni: “Il mio temperamento si va delineando sempre più nettamente. Le malinconie se ne sono andate. Ne è saltata fuori un’arte gaia, serena, da ottimista. Non ho bisogno che di poco: colori, tela, un buco da abitare, ma soprattutto di belle giornate”.
Muore, prematuramente, di febbre spagnola nel 1919.

Medardo Rosso (Torino, 1858 – 1928)
Carne altrui, 1883-1884
Cera, 41 x 36 x 15 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione VAF-Stiftung

Medardo Rosso è tra i maggiori protagonisti della scultura moderna, anticipatore di una nuova concezione della creazione plastica che si svilupperà pienamente nel XX secolo. Durante la sua lunga permanenza a Parigi entra in contatto con gli impressionisti e al suo rientro in Italia viene apprezzato dai futuristi. La sua arte si colloca, infatti, tra le diverse avanguardie che si affermano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
La sua ricerca nasce in ambito naturalista: durante gli studi all’Accademia di Brera si avvicina alla Scapigliatura milanese ma, con il suo trasferimento nella capitale francese nel 1889, il suo lavoro subisce l’influenza dello scultore Auguste Rodin e dei pittori impressionisti.
Affine alla poetica impressionista è la sua ricerca sulla luce, che Medardo porta avanti anche con l’aiuto della fotografia, e sulla visione fuggevole, il “colpo d’occhio” che permette di mettere a fuoco un particolare lasciando indefinito il resto. Famoso per le sue sculture “non finite” che sembrano espandersi nello spazio ricercando una continuità con l’atmosfera che le circonda, l’artista lavora con diversi materiali, prediligendo quelli che si prestano a una rapida modellazione, come la terracotta e la cera.
In aperto contrasto con la cultura tradizionale, l’artista rappresenta talvolta temi sconvenienti o scabrosi. Carne Altrui ci mostra il volto di una prostituta dolente che pare emergere da una massa di materia grezza, pensata per essere osservata da un unico punto di vista. Medardo, infatti, tende ad abbandonare il tuttotondo e preferisce lasciare indefinito il retro della scultura.
Il “solo grande scultore moderno” – come lo definirà Boccioni nel Manifesto della scultura futurista – affronta così un’inedita sfida: quella di “far dimenticare la materia”.

Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 – Sorte, VR, 1916)
Nudo di spalle (Controluce), 1909
Olio su tela, 61 x 55,5 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione L.F.

Una donna anziana ritratta a mezzo busto, seduta su una sedia in modo da appoggiare il fianco e il braccio destro allo schienale, il volto di profilo e la schiena nuda, è avvolta da una luce calda e intensa che la illumina in controluce con una moltitudine di colori. Umberto Boccioni dipinge questi innumerevoli bagliori con filamenti di colore puro, intrecciati l’uno all’altro secondo la tecnica divisionista appresa nello studio del suo maestro Giacomo Balla e influenzata dalla pittura post-impressionista, che aveva potuto vedere a Parigi poco tempo prima.
L’insolita scelta del soggetto, un nudo in cui si riconosce la madre dell’artista, Cecilia Forlani, è probabilmente il frutto di un montaggio tra il suo volto, ritratto in altri disegni e dipinti, e il corpo di una modella, forse memore di un celebre quadro di Toulouse-Lautrec.
Umberto Boccioni muore giovane, a soli 34 anni nel 1916, durante un’esercitazione militare. La sua parabola artista è rapida e intensa e diviene uno dei protagonisti del Futurismo, incarnando la sperimentazione e l’apertura al nuovo che contraddistingue questo movimento d’avanguardia.
L’artista sviluppa una personale concezione pittorica basata su una tessitura di colori puri e complementari, su una composizione attraversata da linee dinamiche e fasci di luce che nella produzione successiva tenderanno a scomporre e compenetrare le forme. In quest’opera giovanile, ancora legata a una visione più naturalistica, si possono già scorgere le basi della sua ricerca sull’espressione dell’energia, dei flussi dinamici e degli stati d’animo.
Soltanto un anno più tardi, sarà tra i firmatari del manifesto della Pittura Futurista, espressione di una svolta radicale che l’artista sembra preannunciare con queste parole:
“Vorrei cancellare tutti i valori che conoscevo, che conosco e che sto perdendo di vista, per rifare, ricostruire su nuove basi! Tutto il passato, meravigliosamente grande, m’opprime io voglio del nuovo!”

Carlo Carrà (Quargnento, AL, 1881 – Milano, 1966)
Composizione TA (Natura morta metafisica), 1916 – 1918
Olio su tela, 70,5 x 54,5 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione VAF-Stiftung

Già protagonista dell’avanguardia futurista, a partire dalla seconda metà degli anni Dieci Carlo Carrà orienta la sua ricerca verso l’osservazione dell’arte del Trecento e del primo Quattrocento, giungendo ad una rappresentazione fatta di suggestioni arcaiche dal sapore ingenuo, quasi naïf. Lo studio degli antichi Maestri lo porta a raggiungere una sintesi figurativa che contraddistingue la ricerca di una moderna classicità. Carrà sente l’esigenza di abbandonare i temi della velocità e del dinamismo, tipici del Futurismo, per avvicinarsi a una ricerca più orientata verso il reale.
Durante la Prima Guerra Mondiale viene ricoverato all’ospedale militare di Ferrara, dove conosce Giorgio de Chirico che in quel periodo stava condividendo con il fratello Alberto e il giovane pittore ferrarese Filippo de Pisis i principi teorici della pittura Metafisica.
Composizione TA appartiene a questo momento della ricerca di Carrà. L’artista aveva cominciato a dipingere il quadro nel 1916, in uno stile che ricorda quello del cubismo sintetico, ma l’anno seguente l’incontro con de Chirico lo spinge ad adottare una poetica fatta di atmosfere sospese e misteriose. Un po’ alla volta, nel corso della sua lunga elaborazione, l’opera incorpora elementi figurativi tipici del linguaggio metafisico, come lo scorcio architettonico, l’asta in primo piano e le ombre scure che proiettano inaspettate geometrie. La presenza di lettere e numeri assume qui una sfumatura diversa rispetto all’uso dei caratteri tipografici nelle opere futuriste o nei collage cubisti, sottolineando la natura enigmatica di questa composizione, come se si trattasse di un rebus irrisolvibile.

Carlo Carrà (Quargnento, AL, 1881 – Milano, 1966)
Le figlie di Loth, 1919
Olio su tela, 111 x 80 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione VAF-Stiftung

L’opera di Carlo Carrà Le figlie di Loth è fondamentale per comprendere il clima dell’arte
italiana tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti del secolo scorso, quando alcuni dei protagonisti delle avanguardie sentono il bisogno di ripensare la loro ricerca e di avviare un dialogo con l’arte del passato.
In questo dipinto si legge la riscoperta della pittura di Giotto e di Masaccio, che ispirano a Carrà un nuovo vocabolario di forme arcaiche e liriche, sospese in un’atmosfera senza tempo che contraddistingue tendenze come la Metafisica e il Realismo Magico.
Il quadro rappresenta un episodio biblico. Loth, la moglie e le loro due figlie sono i giusti destinati ad essere salvati dalla distruzione di Sodoma. Dopo la scomparsa della moglie – che aveva trasgredito l’ordine divino di non voltarsi a guardare la città in fiamme – Loth e le figlie prendono la via dell’esilio. Quest’ultime, preoccupate di assicurare una discendenza alla famiglia, decidono di inebriare il genitore con il vino e di giacere con lui.
L’artista si discosta decisamente dalla rappresentazione tradizionale di questo soggetto, eliminando dalla scena il patriarca ed espliciti riferimenti alla vicenda. Le due sorelle appaiono ieratiche e solenni, colte nel momento in cui l’una presenta all’altra il proposito incestuoso.
La composizione è articolata in tre piani: il primo scandito dalle geometrie delle due figure femminili e del cane – citazione di un affresco di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova – caratterizzate dalle forme allungate e stilizzate dell’arte trecentesca; il secondo contraddistinto dalla fuga prospettica del pavimento e della casa che richiama, anch’essa, le ambientazioni della pittura pre-rinascimentale; infine il piano dello sfondo, in cui trovano posto vari elementi conici che alludono alla trascendenza.
Il rigore che regna in questa composizione evidenzia l’ordine di un mondo che la dissolutezza umana non può turbare.

Arturo Martini (Treviso, 1889 – Milano, 1947)
Il poeta Cechov, 1921-1922
Terracotta, 47,5 x 68 x 31 cm
MART 2349
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Archivio Adriano Pallini in deposito al Mart

Tra i più originali innovatori del Novecento, Arturo Martini ha rivoluzionato i canoni della scultura. Le sue opere assorbono la lezione dell’arte antica, in particolare quella etrusca, rielaborandola in una straordinaria varietà di soluzioni tematiche e plastiche.
Il confronto con l’antico è fondamentale per gli artisti che, tra le due guerre, sentono il bisogno di adottare un linguaggio più semplice, equilibrato e comprensibile, spesso dai tratti arcaici. Negli anni Venti, Martini comincia ad interessarsi alla scultura in ceramica e a studiare i ritratti funerari etruschi, che divengono per lui un riferimento imprescindibile.
In quest’opera, Il poeta Cechov, la posa, le linee stilizzate del panneggio della camicia e la scelta di tagliare la figura poco sotto le spalle ricordano, infatti, i tradizionali busti reliquiari e i coperchi dei sarcofaghi in terracotta dell’antica civiltà etrusca.
Arturo Martini nasce a Treviso nel 1889. Abbandonati gli studi, lavora come apprendista presso un orefice e poi in una manifattura di ceramiche. Compie numerosi viaggi che lo portano a contatto con la scena artistica internazionale. Nel primo dopoguerra, lasciatesi alle spalle le influenze simboliste ed espressioniste degli esordi, si dedica a una forma di purismo plastico.
Le opere degli anni Venti appartengono a un momento di grande creatività, in cui l’artista intreccia l’influenza della scultura etrusca e greca con quella dei Maestri del Duecento e del Trecento, dando vita a un nuovo linguaggio dalle forme semplificate e dai toni pacati.

Giorgio de Chirico (Volo, 1888 – Roma, 1978)
La matinée angoissante, 1912
Olio su tela, 81 x 65 cm,
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione VAF-Stiftung

“La parola metafisica, con la quale battezzai la mia pittura destò malintesi non trascurabili. La parola farebbe pensare che quelle cose che si trovano dopo le cose fisiche debbano costituire una specie di vuoto nirvanico. Pura imbecillità. Ciò che ho tentato in arte nessuno lo tentò prima di me: l’evocazione spettrale di quegli oggetti che l’imbecillità universale relega tra le inutilità”

Giorgio de Chirico dipinge i suoi primi quadri metafisici negli anni Dieci, ispirato dalla geometria delle piazze rinascimentali rilette in chiave onirica. La matinée angoissante è un paesaggio immobile, pervaso da un senso di attesa, dove la luce – vera protagonista del dipinto – illumina la facciata di un palazzo e proietta ombre misteriose in primo piano. Si tratta di una delle opere più importanti di de Chirico, dipinta a Parigi nel 1912, il periodo in cui l’artista dà vita a una tendenza d’avanguardia che rappresenta una meta-realtà, capace di rivelare presenze inquietanti e contenuti enigmatici proprio come fanno i sogni.
Il poeta Apollinare descrivere così questa pittura che vuole mostrare ciò che sta al di là dell’apparenza, cogliendo il mistero che si cela dietro le cose:
“Giorgio de Chirico esprime come nessuno ha mai fatto la melanconia patetica di una fine di bella giornata in qualche antica città italiana, dove in fondo a una piazza solitaria, oltre lo scenario delle logge, dei porticati e dei monumenti del passato, si muove sbuffando un treno (…)”.
Nel quadro, dove dell’uomo non c’è traccia, colpisce la fuga prospettica delle arcate sature d’ombra che corrono fino all’orizzonte nel biancore spettrale dell’edificio, la solitudine della piazza deserta, l’ombra della locomotiva ferma in primo piano che sottolinea l’immobilità del tempo.

Giorgio de Chirico (Volo, 1888 – Roma, 1978)
Autoritratto con la madre, 1922
Olio su tela, 65,55 x 55,5
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione VAF-Stiftung

Giorgio de Chirico nasce nel 1888 in Grecia da genitori di origini italiane e si forma ad Atene dove, alla fine dell’Ottocento, dominava la cultura tedesca. Alla morte del padre, si trasferisce con la madre e il fratello minore a Monaco, dove perfeziona i suoi studi artistici. Nel 1909 si sposta in Italia, che aveva già attraversato dopo aver lasciato la Grecia, e si stabilisce prima a Milano e poi a Firenze. Artista internazionale fin dalla sua formazione, in seguito de Chirico si muoverà tra Parigi, New York, Roma e altre città italiane. Il suo costante errare è uno dei temi principali della sua poetica e riflette quella condizione di sradicamento che gli permette di fondere differenti culture: le sue radici italiane ed elleniche e la cultura tedesca di fine Ottocento, con particolare riguardo al Romanticismo.
La madre Gemma Cervetto è una figura molto presente nella vita dell’artista. Donna dal carattere forte – i figli la chiamavano centauressa – accompagna costantemente Giorgio e Andrea – che in seguito cambierà il suo cognome in Savinio – negli anni della loro formazione.
L’artista la ritrae insieme a sé per la seconda volta, nel 1922: ormai invecchiata, con i capelli bianchi, in una posa austera di tre quarti che ricalca l’iconografia dei ritratti quattrocenteschi. Dietro di lei l’artista guarda verso l’osservatore, la testa accostata a quella della madre in modo speculare. L’ambientazione ricalca, anch’essa, i modelli antichi che de Chirico aveva pazientemente copiato nei musei italiani e francesi, approfondendo lo studio della tecnica di cui parla in un suo scritto del 1919 intitolato “Il ritorno al mestiere”. Questo dipinto è un perfetto esempio di tale processo di riappropriazione dell’antica sapienza pittorica e di immedesimazione nel ruolo di pictor classicus, tanto che l’artista ne parla come di “una cosa che avrebbe potuto stare al Louvre”.

Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano, 1961)
Il povero pescatore, (1924-1925)
Olio su tela, 101,5 x 76 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione L.F.

Nei primi anni Venti del ‘900, in opposizione all’esperienza delle avanguardie, un gruppo di artisti che riscoprono il mondo classico e i suoi valori vengono riuniti sotto il nome di Novecento italiano dalla giornalista e critica d’arte Margherita Sarfatti, promotrice di una una mostra alla galleria Pesaro di Milano, nel 1923. Gli artisti riuniti per questo primo progetto espositivo sono Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Luigi Malerba, Pietro Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi, ma gli appuntamenti successivi comprenderanno un numero sempre crescente di autori. È la Sarfatti a esplicitare i caratteri fondamentali che legano gli artisti da lei selezionati: un ritorno al concreto, al semplice, al definitivo nella pittura, attraverso “limpidità nella forma e compostezza nella concezione”. I temi prediletti da questi artisti sono decisamente tradizionali: la natura morta, la maternità, il ritratto e l’allegoria calati in una dimensione di domestica e rassicurante quotidianità.
Mario Sironi è uno dei massimi interpreti di Novecento italiano e in questo quadro si possono osservare alcune costanti della sua pittura: i toni terrosi dei colori e i forti contrasti chiaroscurali, la robusta plasticità della figura rappresentata in modo sintetico e con grande risalto dei volumi, l’equilibrio compositivo che conferisce solennità alla scena e, non ultimo, il tema della dignità del lavoro, caro all’artista.
Dopo l’iniziale adesione al Futurismo, Sironi matura il proprio stile personale fatto di colori scuri e di attenzione alla solidità costruttiva e compositiva che svilupperà anche nell’ambito della pittura murale, aderendo all’idea che la decorazione degli edifici possa essere un efficace strumento di educazione delle masse, un mezzo per diffondere i valori del regime fascista.

Marino Marini (Pistoia, 1901 – Viareggio, LU, 1980)
Pugile, (1933)
Bronzo, 82 x 50 x 64 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Provincia autonoma di Trento – Soprintendenza per i beni culturali

Ispirato dalle opere arcaiche legate alle sue alle radici toscane, alla fine degli anni Venti Marino Marini entra far parte del gruppo Novecento Italiano. Le sue opere, infatti, si rifanno alla scultura etrusca, greca e romana rielaborate in chiave moderna, in linea con le idee sostenute dal gruppo.
Pugile fa parte della serie di figure di atleti che Marini realizza negli anni Trenta. Il tema, molto diffuso nel ventennio fascista, rimanda al mondo greco-romano, al quale il regime vuole ricollegarsi. Ma l’artista spoglia il soggetto di qualsiasi tono retorico e rilegge in maniera originale la lezione degli antichi, in particolare quella dell’arte etrusca. Da questo suo personale dialogo con la tradizione deriva l’arcaica fissità della scultura, accentuata dal taglio essenziale della figura ridotta al torso e a parte degli arti, come fosse un frammento archeologico.
È l’artista stesso a sottolineare il suo legame con l’arte antica e la sua volontà di servirsene per elaborare un linguaggio moderno alternativo a quello delle avanguardie:
“Io guardo agli etruschi per la stessa ragione per cui tutta l’arte moderna si è voltata indietro saltando l’immediato passato ed è andata a rinvigorirsi nell’espressione più genuina di un’umanità vergine e remota. La coincidenza non è soltanto culturale; ma noi aspiriamo a una elementarità dell’arte”

Felice Casorati (Novara, 1883 – Torino, 1963)
Beethoven, 1928
Olio su tavola, 139 x 120 cm,
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione VAF-Stiftung

Una bambina vestita di bianco posa accanto ad uno spartito su cui si legge Beethoven, titolo del quadro. La bambina è in piedi, immobile, alle sue spalle un grande specchio ne raddoppia l’immagine riflettendo anche l’ambiente circostante ma non il cagnolino alla sua sinistra, che in realtà è una scultura di gesso presente nello studio del pittore. La staticità della scena e il modo in cui gli oggetti sono rappresentati conferiscono a questo dipinto di Felice Casorati un’aurea misteriosa: la scultura del cagnolino, la chitarra, lo specchio, l’incantesimo dell’immagine riflessa appartengono alla poetica del Realismo Magico, una tendenza affine alla Nuova Oggettività tedesca. La contraddizione insita nel nome coniato dal critico Franz Roh nel 1925 esprime perfettamente il senso di questa pittura che accompagna l’immagine quasi fotografica della realtà con un senso di meraviglia e di sospensione, di malinconia e di solitudine, come prodotto da un incantesimo.
L’artista, infatti, rappresenta oggetti comuni trasfigurandoli attraverso l’incantesimo nella pittura e la relazione che si stabilisce fra le immagini dipinte e lo sguardo di chi le contempla.
Casorati è uno dei massimi interpreti italiani di questa tendenza e raggiunge la piena maturità del suo linguaggio pittorico con uno stile sobrio e composto, contraddistinto da una sintesi che s’ispirata all’arte quattrocentesca di Piero della Francesca e alla riduzione delle forme a solidi geometrici di Cézanne.
“Vorrei saper proclamare la dolcezza di fissare sulla tela le anime incantate e ferme, le cose immobili e mute, gli sguardi lunghi, i pensieri profondi e limpidi, la vita di gioia e non di vertigine, la vita di dolore e non di affanno”.

Carlo Carrà (Quargnento, AL, 1881 – Milano, 1966)
Ciò che mi ha detto il tram, 1911
Olio su tela, 53 x 67 cm
MART 968, VAF 0716
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione VAF-Stiftung

Rispondendo all’appello lanciato da Filippo Tommaso Marinetti con il suo manifesto del 1909, Carlo Carrà firma il Manifesto tecnico dei pittori futuristi, in cui si proclama che “non può sussistere pittura senza divisionismo”.
Il segno diviso, con le sue traiettorie e i suoi flussi ondulati, è funzionale alla resa del dinamismo: con colori puri e brillanti stesi a piccoli tocchi o a pennellate sfrangiate, i futuristi rappresentano il frenetico movimento della vita moderna. Le strade illuminate dalla luce elettrica e brulicanti di folla nell’ora di punta sono tra i loro temi prediletti, da contrapporre a quelli tradizionali e “passatisti”.
In Ciò che mi ha detto il tram Carrà adotta i principi della molteplicità dei punti di vista e della simultaneità spazio-temporale, convinto che la visione sia “la sintesi di quello che si ricorda e di quello che si vede”. Una visione, dunque, in cui spazio e tempo si fondono e si relativizzano, secondo una nuova concezione della realtà in linea con le teorie di Einstein e con l’idea di durata interiore espressa dal filosofo Henri Bergson.
Carrà partecipa al movimento futurista dal 1909 al 1915 e in quest’arco di tempo sperimenta il linguaggio dell’avanguardia dipingendo quadri dove le figure si dissolvono in un caos di piani slittanti e di forme che si compenetrano.

Giacomo Balla (Torino, 1871 – Roma, 1958)
Linee forze di paesaggio + giardino, 1918
Tempera su carta intelata, 55 x 77,5 cm,
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione VAF-Stiftung

La presenza di segni matematici nel titolo di quest’opera di Giacomo Balla si ricollega all’uso degli stessi nella scrittura, suggerito da Marinetti nel suo manifesto Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica.
Linee forze di paesaggio + giardino rappresenta un intreccio di elementi organici e artificiali in una combinazione di colori chiari che Balla declinerà in più varianti cromatiche, replicando questo quadro in altre versioni.
Partito dal Divisionismo in chiave sociale di Segantini e Pellizza da Volpedo, Balla aderisce al Futurismo elaborando un suo stile personale, basato sullo studio del movimento, del colore e della scomposizione della luce, giungendo progressivamente a composizioni geometriche astratte.
Nel manifesto “Ricostruzione futurista dell’universo”, scritto insieme a Depero nel 1915, si legge “daremo scheletro e carne all’ invisibile all’ impalpabile all’ imponderabile all’ impercettibile troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo poi li combineremo insieme secondo i capricci della nostra ispirazione per formare dei complessi plastici che metteremo in moto” e ancora: “(…) un paesaggio astratto a coni, piramidi, poliedri, spirali di monti, fiumi, luci, ombre”.
La nuova forma di rappresentazione del paesaggio di Balla si pone, quindi, all’interno di un’ideale ricostruzione dell’universo ed è guidata da una visione cinetica, festosa e coloratissima, in cui si intrecciano elementi naturali e meccanici.

Gino Severini (Cortona, AR, 1883 – Parigi, 1966)
Ritratto di Madame M.S., (1913-1915)
Pastello su cartoncino su tela, 92,5 x 65 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione L.F.

Toscano, nato alla fine dell’800, Gino Severini si forma nello studio di Giacomo Balla e, nel 1906, parte per Parigi dove s’immerge nella movimentata vita artistica della capitale francese, in quegli anni culla delle avanguardie.
Il suo trasferimento in Francia non gli impedisce di partecipare al Futurismo e nel 1910 è tra i firmatari del primo Manifesto dei pittori futuristi. La scena urbana diventa il soggetto per eccellenza di molte sue opere, dove l’artista rappresenta il dinamismo della vita della metropoli: uno scenario in continuo cambiamento.
Il Ritratto di Madame M.S. appartiene a una serie di ritratti dedicati alla signora Meyer-See, moglie di un noto gallerista londinese, che Severini realizza fra il 1913 e il 1915. Quest’opera eseguita a pastello è uno dei primi esempi di applicazione della teoria futurista al genere del ritratto. Diversamente dagli scenari urbani dei boulevard inondati di folla, qui Severini ribalta i termini del problema: non è più il soggetto ad essere in movimento, bensì il modo in cui viene osservato, attraverso una visione dinamica e simultanea. L’artista si avvale, infatti, di punti di vista molteplici che scompongono e moltiplicano la figura in una visione prismatica come nei ritratti cubisti, ma con un gusto per il colore vivace e brillante caratteristico della pittura futurista.
I tratti intrecciati, eredi del Divisionismo, compongono i frammenti slittanti della figura della signora Meyer-See, di cui riconosciamo l’abito blu e la camicia bianca con i volant, i boccoli biondi, il grande cappello piumato e il cagnolino che tiene in grembo.

Tullio Crali (Igalo, 1910 – Milano, 2000)
Le forze della curva, 1930
Olio su cartone, 71×102,
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto

Il tema del dinamismo è al centro delle ricerche degli artisti futuristi anche nella seconda stagione del movimento, tra gli anni Venti e Trenta, tanto che alcuni di loro si trasformano in arditi piloti d’aeroplano. Nel 1929 nasce così l’Aeropittura: una tendenza che, sfruttando i nuovi mezzi di trasporto, introduce un nuovo tipo di visione priva di centro e di gravità, dinamica e capace di sperimentare punti di vista vertiginosi, come quelli adottati da Tullio Crali.
Appassionato di velocità e aeropittore, Crali traduce il dinamismo dei moderni mezzi meccanici in una dimensione quasi astratta, solcata da traiettorie che indicano le direzioni del movimento e sono una trasfigurazione lirica delle sensazioni legate all’esperienza dinamica. L’automobile, come qualsiasi mezzo legato allo spostamento, simboleggia il fascino esercitato dalla velocità e dalla potenza della macchina. Con la scelta del titolo, l’artista sposta la nostra attenzione dall’oggetto in sé al movimento che esso produce nello spazio: le forme astratte che si sviluppano dal muso stilizzato dell’automobile in corsa indicano le linee di forza che esprimono la sua energia dinamica.
Tullio Crali ha vissuto e dipinto da futurista per tutta la vita, “Dopo tanti anni mi trovo ancora e sempre con il futurismo addosso”. Il fascino del movimento, l’amore per la velocità, la passione per il volo, il senso dello spazio, l’interesse per la modernità e le invenzioni dell’uomo, rimarranno sempre al centro della sua ricerca artistica.

Fortunato Depero (Fondo, TN, 1892 – Rovereto, TN, 1960)
Movimento d’uccello, 1916
Olio, tempera e smalto su tela, 100 x 135 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Fondo Depero

Giunto a Roma nel 1913, Fortunato Depero entra in contatto con i futuristi e sperimenta nuove forme astratto-geometriche capaci di rappresentare stati d’animo, suoni e colori: una concezione sinestetica dell’arte che trova forma, in particolare, nei suoi perduti Complessi plastico-dinamici.
Nel 1915 firma con Giacomo Balla il Manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo, nel quale si parla di una radicale trasformazione che coinvolge tutte le arti, dall’arredo alla moda, dal cinema al teatro, dalla musica alla danza, dal manifesto pubblicitario alla progettazione dell’oggetto d’uso. Nel documento i due artisti affermano: “Troveremo gli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme secondo i capricci della nostra ispirazione”
Tale concetto trova una perfetta esplicazione nel dipinto Movimento d’uccello, dove l’anatomia del volatile costituisce il punto di partenza per ideare una ricostruzione fantastica del suo movimento, attraverso forme stilizzate e quasi astratte. Un ventaglio di spicchi e di dischi dipinti con colori brillanti formano una sequenza che richiama le ali di un grande uccello in volo.
Con il suo stile pittorico a tinte piatte, Depero attua una nuova sintesi plastica delle forme, una compenetrazione di superfici dai contorni nitidi. Alle pennellate fluide e sfumate del primo futurismo, infatti, egli preferisce una composizione fatta di piani slittanti che assumono una solidità quasi plastica.

Manlio Rho (Como, 1901 – 1957)
Composizione, 1936
Olio su tavola, 60 x 50 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione VAF-Stiftung

All’inizio degli anni Trenta, grazie all’attività della Galleria Il Milione, Milano diventa il centro dell’arte astratta. Prima di allora, in Italia, solo alcune ricerche futuriste si erano avvicinate a questa nuova forma espressiva, attraverso la progressiva stilizzazione e sintesi del reale. Ma per osservare la nascita di un linguaggio completamente autonomo dalle forme della realtà è necessario attendere l’astrazione geometrica di alcuni artisti come Manlio Rho.
Comasco di nascita, Rho è pittore e designer di tessuti stampati, influenzato dalla grafica d’avanguardia e dalle nuove ricerche architettoniche razionaliste che, come la pittura astratta, si stavano concentrando sulla composizione di forme essenziali e geometriche.
Negli anni Venti partecipa al clima di vivace scambio culturale con l’astrazione europea e insieme agli architetti Giuseppe Terragni e Alberto Sartoris e al pittore Mario Radice getta le basi per la nascita del gruppo degli astrattisti comaschi.
Le sue prime opere non figurative nascono all’inizio degli anni Trenta e mostrano un raffinato senso del colore e dell’armonia delle forme. La pittura di Rho è contraddistinta dalla sintesi fra una rigorosa geometria e una limpida cromia stesa a tinte piatte. Le forme così delineate danno vita a un gioco di equilibri che rivela la sua attenzione per il concetto di spazio, in sintonia con l’idea di architettura sviluppata dal suo conterraneo Terragni.

Fausto Melotti (Rovereto, TN, 1901 – Milano, 1986)
Contrappunto domestico, 1973
Acciaio, 220 x 286 x 29 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto

Tra gli artisti del Milione troviamo anche Fausto Melotti, che nella galleria milanese espone le sue prime sculture astratte.
Nato a Rovereto, Melotti studia fisica e matematica all’Università di Pisa prima di laurearsi in ingegneria al Politecnico di Milano nel 1924. Parallelamente studia pianoforte e, dal 1928, frequenta l’Accademia di Brera, specializzandosi in scultura. Nel corso degli anni Trenta aderisce al movimento Abstraction-Création e comincia a creare opere dalle forme geometriche ispirandosi ai linguaggi della musica e della matematica: lavori molto innovativi che purtroppo non vengono compresi dal pubblico e dalla critica. Per questo motivo preferirà dedicarsi, per alcuni anni, esclusivamente all’arte ceramica.
Dopo la seconda guerra mondiale Melotti ritorna alla scultura impiegando i materiali metallici in modo nuovo, come si vede in Contrappunto domestico. L’opera è contraddistinta da una struttura filiforme che disegna nello spazio una scansione ritmica, simile a uno spartito. Le lamine metalliche sospese all’interno della griglia ortogonale possono ricordare, infatti, le note su un pentagramma.
L’artista svuota la scultura del tradizionale peso della materia, optando per forme esili che dialogano con il vuoto dello spazio, spesso appese a fili che permettono loro di oscillare leggermente. Le forme geometriche ritagliate nelle lamine metalliche accentuano la luminosità di questa scultura e il suo delicato equilibrio tra ordine e instabilità.

Fausto Melotti (Rovereto, TN, 1901 – Milano, 1986)
Scultura n. 23, 1935
Gesso, 90,5 x 90,5 x 8 cm
Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Provincia autonoma di Trento – Soprintendenza per i beni culturali

“L’artista deve avere un credo, ma, penso, lo deve anche tradire. Altrimenti, prigioniero nel suo tabernacolo, si vede consegnato a un equilibrio indifferente, come su un piano perfettamente orizzontale. La palla vive quando rotola in basso o è lanciata in alto”.

Fausto Melotti è scultore, musicista, pittore e poeta dalla duplice formazione, tecnico-scientifica e artistica, vicino al gruppo astrattista della Galleria Il Milione e sensibile alle influenze dell’architettura razionalista. Nella sua opera è costante l’influenza della musica che, attraverso le leggi matematiche, gli ispira il concetto di composizione armonica.
Lui stesso scrive, nell’introduzione al catalogo della sua prima mostra personale, nel 1935: “L’arte è stato d’animo angelico, geometrico. Essa si rivolge all’intelletto e non ai sensi. […] Non la modellazione ha importanza ma la modulazione. Non è un gioco di parola: modellazione viene da modello = natura = disordine; modulazione viene da modulo = cànone = ordine.”
Scultura n.23 è un rilievo in gesso monocromo scolpito secondo un ordine rigorosamente geometrico, fondato proprio su questo concetto di modulazione. Pieni e vuoti si rincorrono come moduli architettonici dalle impercettibili variazioni create dalla luce e dall’ombra. Uno spazio bianco apparentemente silenzioso, in realtà reso vibrante dal ritmo delle geometrie che scandiscono lo spazio ortogonale del quadrato.